Nella prevenzione, nell’intervento socio-educativo e in quello socio-sanitario e sanitario, è necessaria prima un’attenta diagnosi per poi progettare un intervento dove risultano sempre “attori principali” tutti gli adulti che ruotano intorno al ragazzo: la scuola, lo sport, i coetanei e la famiglia. Spesso, proprio la famiglia, nella prevenzione e cura del disagio psichico in infanzia e adolescenza viene poco considerata, mentre deve diventare uno dei tasselli principali.
Siamo troppo abituati a considerare la “malattia” come disfunzione organica; siamo portati a negare il dolore mentale nell’infanzia e nell’adolescenza. Se un bambino ci costringe a vedere la sua angoscia di restare da solo o il suo vivere in un mondo popolato di mostri terrifichi, se un adolescente è paralizzato dai suoi rituali ossessivi e perseguitato dalle sue “malattie immaginarie”, ci rivolgiamo al medico perché scopra l’organo malato e prescriva il farmaco adatto.
Ci è difficile pensare che tali disturbi rivelano modi disfunzionali di pensare e di relazionarsi all’interno dell’individuo e del suo sistema di appartenenza. Una tale consapevolezza evidenzia quanto noi adulti siamo disposti a metterci in crisi per alleviare la sofferenza di un membro della nostra famiglia e migliorare le nostre relazioni.
Se nostro figlio soffre di allucinazioni o è prigioniero di rituali ossessivi, che gli impediscono di toc-care ogni cosa e di uscire di casa, per molto tempo sperimentiamo diversi metodi pedagogici, frutti della nostra creatività e della nostra buona volontà. In seguito eseguiamo in modo scrupoloso le indicazioni degli esperti, spaventati di diagnosticare malattie funzionali gravi nei bambini e negli adolescenti. Infine gli esperti costretti a emettere l’angosciante diagnosi, noi genitori stanchi dei numerosi fallimenti pedagogici, ci affidiamo alla cura farmacologica con una speranza di là da ogni senso di realtà.
Siamo stati costretti, solo dalla nostra paura e dai nostri pregiudizi a trasformare una grave malattia funzionale in organica, di là da ogni consenso scientifico.
Le stesse malattie negli adulti, dopo averle considerate per anni malattie biologiche, oggi la comu-nità scientifica le inquadra diversamente con la teoria dei tre fattori. Ci si augura che tali pregiudizi non impediscano di prendere in considerazione che la sofferenza mentale, sia nella sua forma lieve sia in quella grave, mostra le disfunzioni relazionali della famiglia di appartenenza. Per tale motivo il paziente non è il bambino o l’adolescente ma la famiglia di appartenenza. Essa deve essere l’oggetto della diagnosi e della cura.
Se si dimentica ciò, si procura sofferenza all’individuo portatore di sintomo e alla sua famiglia, con-dannando, cosa ancora più grave, la famiglia ad una perdita di tempo notevole in cure palliative se non controproducenti e la società ad un inutile aggravio economico.
Passare dal considerare l’individuo come paziente al considerare la famiglia come paziente, pregiudizio difficile da scardinare, crea salute nel presente all’individuo e alla sua famiglia; riduce la percentuale di queste malattie negli adulti e alza il livello della salute nel presente e nel futuro nella società. Un corso di alfabetizzazione non produce effetto solo negli adulti cui si insegna; eleva il livello culturale della società in cui si è effettuato l’alfabetizzazione, per il presente e per il futuro. Considerare la famiglia come paziente, più che il suo membro, bambino o adolescente, eleva la qualità della salute mentale di un popolo nel presente e nel futuro.
In infanzia e in adolescenza il lavoro va fatto non sul singolo ma sulla comunità di adulti che si occupano della sua educazione e della sua crescita psico-fisica, ciò aiuta ad evitare:
• la cronicizzazione nella vita adulta. Si ipotizza la riduzione nell’arco di dieci anni della sofferenza dei pazienti in cura e nello stesso tempo il calo del quaranta per cento della psicosi nella popolazione adulta dell’area geografica di intervento;
• il ripresentarsi dei gravi inconvenienti della cura della sofferenza mentale degli adulti, ossia l’enfatizzazione del fattore biologico a scapito di quello psicologico e sociale (= ridurre la mente alla biologia) e il monopolio delle strutture statali che, impedendo una sana concorrenza, penalizzano sia la cura del malato sia la ricerca scientifica.